La resilienza dell’ulivo
“il treno intercity notte per Lecce delle ore 19 è in partenza dal binario 5”.
L’altoparlante della stazione di Torino Porta Nuova mi avvisa che, di lì a breve, il nostro viaggio avrà inizio. Dalla banchina dò un ultimo rapido sguardo a quel treno lento e vecchio. Spengo la sigaretta, non abbastanza rapidamente da evitarmi il rimprovero di mia nonna che, dal finestrino del nostro scompartimento, mi rimbrotta, inveendo sul mio vizio dannoso e costoso. Salgo su e mi sistemo. Siamo l’una di fronte all’altra, di fianco a noi una coppia, più in là due ragazzi. In uno scompartimento di pochi metri quadrati c’è un variegato angolo di mondo che, per circa dodici ore, si farà compagnia. Il capostazione fischia, il treno parte.
Sono ormai passati più di vent’anni dal nostro primo viaggio in direzione della sua amata Puglia e nulla pare essere cambiato: stessi sedili scomodi, stessi finestrini sporchi, stesso caldo asfissiante, stessa strana coppia di viaggiatrici che ai primi di agosto, mano nella mano, attraversano l’Italia. Anche la mise che lei indossa è sempre la stessa, lunghi pantaloni di cotone fiorati con su una maglietta arancione. Il viaggio in treno è, senza dubbio, l’unica occasione in cui abbandona la gonna per cedere alla comodità di un pantalone. Questo perché: “alle donne si addice la gonna, sotto il ginocchio certo, quel vedo non vedo che è il segreto del femminile”. E poi perché: “la gonna è la dimostrazione di come le donne riescano nelle difficoltà”. Non so dire quante volte le ho sentito ripetere questa frase, ma ricordo bene quando le chiesi che cosa significasse, la sua risposta fu: “prova tu a far andare un uomo in campagna a vendemmiare con indosso una veste, rimarrà sul carretto seduto tutta la giornata incapace di scendere giù”. Lei è tutta riassunta in questa risposta: una donna pratica, ruvida e profonda nella sua saggezza dettata dall’esperienza. È una donna del profondo sud, una donna che porta nel corpo e nell’anima i suoi natali. Se dovessi scegliere un solo aggettivo per descriverla, sceglierei, senza dubbio, “salentina”.
Partite da poco più di un’ora, dal finestrino passano gli ultimi tiepidi raggi di un sole che, a breve, calerà per lasciar spazio alla notte. Alzo lo sguardo e la osservo trafficare nella borsa frigo. Guardo le sue mani nervose e screpolate che nel loro manifestarsi mi raccontano di un’infanzia finita troppo presto. Finita quando, anziché frequentare la quarta elementare, insieme ai suoi fratelli, è andata nei campi a lavorare la terra. Campi infiniti di alberi d’ulivo. Alberi contorti, intrecciati e secolari, gli ulivi, in grado di resistere alle intemperie, al vento, alla pioggia e alle torride estati. In comune con loro lei ha proprio questa caratteristica di “resilienza”, dal latino resilire, rimbalzare, in fisica indica la proprietà dei materiai di riprendere la forma originaria dopo aver subito un colpo; in sociologia e in psicologia evidenzia la capacità umana di far fronte alle difficoltà della vita con elasticità, vitalità, energia e ingegnosità, indica la capacità di ricostruirsi. Esattamente come questi alberi lei è “in-spezzabile”: forte, caparbia, impossibile da abbattere. Come loro accusa il colpo ma, dopo lo sconforto iniziale, reagisce, rimane salda sulle sue radici, non si lascia tirare giù e, alla fine, quale che sia il vortice che ha provato ad atterrarla, lei lo supera, risultandone la vincitrice.
Tira fuori dalla borsa due tupperware, per un istante il suo sguardo incrocia il mio. Intorno agli occhi le spesse rughe profonde tradiscono le troppe ore di sonno perse dietro ai doveri e alle preoccupazioni di ragazza madre prima, di capofamiglia poi. La vita ha un non so che di beffardo, è una vecchia puttana sdentata che ride godendosi la commedia dell’esistenza, una puttana spesso priva di fantasia che fa ripercorrere a un figlio lo stesso irto terreno solcato dal genitore. È così il destino solitario di ragazza madre di mia nonna è passato in eredità a mia madre. Un unico imperdonabile errore in una vita fatta di obbedienza e rispetto delle regole, quello di essersi innamorata di un uomo, di essersi abbandonata a lui, di avergli creduto quando, nudi e abbracciati, le prometteva che si sarebbe preso cura di lei, che l’avrebbe resa una donna rispettabile, che l’avrebbe sposata. Povera ingenua. Sulla schiena ha ancora due grosse cicatrici, il conto che ha pagato per aver sognato. Ogni tanto la spio in bagno quando se le osserva e, lentamente e dolcemente, se le accarezza con una mano. I suoi occhi si inumidiscono mentre il pensiero torna a quella terribile notte quando, raccogliendo tutto il coraggio di cui era capace, è andata da suo padre a dirgli che era incinta. Di tutta risposta lui estrasse la cinghia e inveendole contro la colpì, ancora e ancora, finché esausto le disse che doveva andarsene. Via da lì, via dagli occhi indiscreti del paese che mormora e giudica, della gente triste che incapace di dare il “cattivo” esempio si inerpica in “buoni” consigli.
Sono oramai passati più di cinquant’anni da quando, con una valigia di cartone vuota di indumenti ma piena di preoccupazioni, è salita su un treno in direzione Torino. Poco più che adolescente ha abbandonato tutto ciò che della vita conosceva per ricominciare. Ricominciare da capo imparando una lingua, perché lì al nord il dialetto non lo capiva nessuno, imparando il significato di un termine che l’avrebbe identificata per sempre “terrona”, imparando quanto matrigna può essere una terra che non accoglie ma isola. Prima ospite a casa di una cugina che “doveva un favore” e che nulla ha mai fatto per nasconderle la sua contrarietà, poi, in una casa a servizio: vitto e alloggio in cambio di lavoro. Brava gente i signori Bevilacqua, una stanza in cambio di giornate intere di lavoro, senza orari né riposo. Brava gente che non faceva troppo caso alla sua pancia, nemmeno quando c’era da salire su di una scala a pulire le serrande. Brava gente che ha chiamato un’ostetrica, amica di famiglia, quando le doglie si sono fatte troppo forti per continuare a far finta di nulla. Brava gente che, dopo due mesi, le ha detto che non avevano più bisogno di lei né tanto meno della sua bambina lagnosa. E così con la piccola in braccio è andata a cercare un lavoro e una casa. Ha trovato tutto in un’unica soluzione: portinaia in uno stabile di cinque condomini. È qui che ha davvero ricominciato a vivere, la guardiola è diventata casa sua, le scale da pulire il suo regno e i condomini, pian piano, la sua famiglia. Ha fatto, allora, ciò che da sempre le viene meglio, si è fatta amare e apprezzare per la sua praticità, onestà e affidabilità. Quella terra matrigna, dopo essersi nutrita del sudore della sua fronte, è diventata la sua nuova terra madre.
“Michela”, la voce di mia nonna che mi chiama mi ridesta dal torpore dei miei pensieri e mi riporta alla realtà. Ha fame. Con un gesto rapido mi sporge il mio tupperware, dentro, al posto di anemici tramezzini insipidi, una porzione di orecchiette con le cime di rapa. Mangiamo e chiacchieriamo: del tempo, di quanto siano scomodi i sedili, del fatto che domani saremo con le chiappe al sole. Si sono fatte le undici, ha sonno. Stendo entrambi i sedili che uniti insieme danno una parvenza di letto. Lei si sdraia, sbadiglia. Chiedo gentilmente agli altri passeggeri di spegnere la luce, capiscono e lo fanno. Si accovaccia su di un fianco, minuta com’è in quella posizione fetale sembra una bambina indifesa. Le dò la buonanotte e le dico che vado in bagno. È la solita vecchia scusa che uso per allontanarmi: in due non ci stiamo e lei ha bisogno di riposare. Prendo posto nel corridoio del treno, mi siedo per terra e mi appresto a passare la notte lì. Nella solitudine dell’oscurità, cullata dal procedere lento ma continuo del treno ritorno ai miei pensieri. Ho impiegato molto tempo a capire perché, dopo tanto dolore, si ostini a tornare nel suo paese tutti gli anni. Mi sono chiesta cosa la spinga a passare lì le sue estati, tra quella stessa gente che non ha esitato un istante a cacciarla. Poi ho capito. Mia nonna non è ritornata in Salento per più di vent’anni, è ritornata solo quando sono nata io. Quando mia mamma era presa dal lavoro e c’era la necessità che qualcuno si occupasse di me nei tre lunghi mesi estivi. Lì l’idea di tornare in un posto familiare dove fare le vacanze, l’idea di tornare al suo paese. Ed è da quel momento che il posto che tanto ha odiato ha cambiato forma, per riscriversi attraverso ricordi nuovi che parlano di una nonna e di una nipote in attesa che le raggiunga il terzo polo di questa famiglia sgangherata ma meravigliosa: sua figlia, mia madre. Un posto che ha perso tutto il male del mondo per lasciar spazio solo al buono. Un posto che, quando ci vede tutte e tre riunite, tre donne nel mondo, le ricorda che ce l’ha fatta, che lei è l’ulivo, dietro il quale noi troviamo riparo dalle tempeste.
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