Persone normali, Sally Rooney

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Era da tempo che non mi trovavo coinvolto emotivamente durante la lettura di un libro come è successo mentre leggevo “Persone normali”. Mi sono cibato delle pagine di questo libro come se non ne avessi mai letto uno prima e, ciò che mi ha maggiormente sorpreso, è stato il fatto di essermi sentito parte integrante del racconto durante tutta la lettura. La storia in questo romanzo non è nulla di così artificioso o complicato e, anzi, talvolta potrebbe quasi risultare banale, ma è proprio in questo che ho trovato l’originalità del libro: il riuscire a coinvolgere il lettore in modo così efficace e forte nonostante la semplicità del racconto. Forse è proprio nella semplicità della trama che l’autrice ha nascosto tutti i suoi punti di forza: dietro a quello che inizialmente poteva apparire come un semplice racconto per ragazzi, che narra la storia di due adolescenti (innamorati?), si è in realtà celato un appassionante romanzo psicologico. In questo caso, però, con “psicologico” non si sta parlando della tradizionale opera joyciana, con flussi di coscienza e monologhi interiori annessi ma, semplicemente si parla di un romanzo dove la concentrazione del lettore deve essere completamente prestata all’interiorità dei personaggi. Ho trovato questo romanzo innovativo anche sotto questo punto di vista: rovesciando, nei limiti dell’autorità, i canoni tradizionali, la Rooney è riuscita con estrema efficacia a sfruttare la trama quasi unicamente come sfondo di una storia molto più complessa e coinvolgente, facendo confluire le impressioni del lettore totalmente sui personaggi, sul loro animo, mettendo in risalto la loro situazione interiore e, talvolta, quasi tralasciando la storia stessa.

I protagonisti del romanzo sono Marianne e Connell: la loro vicenda personale costituisce la colonna portante della storia durante tutto il libro. I due personaggi subiscono un’evoluzione molto strana nel corso del racconto. Una volta arrivati all’ultima pagina, infatti, non si può di certo dire di aver assistito ad una crescita lineare da parte dei due caratteri principali del romanzo: ciò che si può senz’altro affermare è che, nonostante tutto, sia Marianne che Connell alla fine della storia arriveranno alla vera comprensione del proprio essere. Il raggiungimento di questa consapevolezza però avviene in modo molto differente per i due adolescenti, infatti, mentre nel caso di Marianne assistiamo in linea di massima a uno sviluppo ciclico della sua vicenda interiore, nel caso di Connell, la sua evoluzione si può dire caratterizzata da un climax (se esso sia ascendente o discendente dipende dall’interpretazione del lettore). I due protagonisti però saranno accomunati dalla fine della storia, quando capiranno che forse non sono tanto speciali, positivamente e negativamente, come hanno sempre creduto, ma sono solo due “persone normali”.

Un altro aspetto che mi ha molto colpito è stato che solo verso la fine del libro mi sono accorto di aver letto una sorta di rivisitazione di Dr. Jekyll e Mr. Hyde; infatti mi sento abbastanza libero di affermare che Marianne e Connell siano due diversi lati di una stessa persona e, come nel romanzo di Stevenson alla fine Jekyll sarà costretto a suicidarsi per liberarsi di Hyde, così i due protagonisti di “Persone normali” sembra che alla fine saranno costretti a separarsi per poter vivere ognuno la propria vita.

Il finale, in realtà, è aperto: personalmente ho trovato la spiegazione precedente come la più ragionevole anche se, data la mia tendenza a prediligere il lieto fine nelle storie, spero sempre che alla fine Marianne segua Connell a New York, oppure che il ragazzo resti a Dublino e che inizino a vivere assieme serenamente senza più abbandoni o incomprensioni, che dopo anni passati a rincorrersi non sarebbe neanche tanto male come finale. Sono però consapevole che per una conclusione del genere mi basterebbe guardare un qualsiasi film d’amore, ma non essendo il mio genere cinematografico prediletto, per il momento mi accontento di rimanere un po’ deluso dal finale aperto del romanzo perché d’altronde, se un libro non va giudicato dalla copertina, non vedo perché lo si dovrebbe giudicare dal finale e, non sarà di sicuro l’ultima pagina a rovinare le duecentotrentaquattro precedenti.

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